Rete e tecnologia non sono un problema, sono un dato di fatto. Il loro cattivo utilizzo è il problema. Nel problem solving strategico diciamo che un problema può essere solo qualcosa che ha soluzione. Se non vi è soluzione non è un problema, ma un dato di fatto. Ecco, la Rete non ha soluzione ed il fatto che non sia sacrificabile, eliminabile, credo ci metta tutti d’accordo. Quindi la Rete è un dato di fatto. Quale è allora il problema? Perchè certamente in questo momento storico ne abbiamo uno (e forse anche più di uno). Il problema sta nel cattivo utilizzo della stessa. E poichè abbiamo detto che un problema è tale quando ha una soluzione, dobbiamo procedere per tentativi, per possibili soluzioni praticabili. Si potrebbe iniziare, ad esempio, educando i nostri ragazzi ad un corretto utilizzo della stessa. E senza troppi giri di parole, io inizierei con l’educare prima gli adulti, noi adulti. La responsabilità è tutta nostra, è solo nostra.
Siamo tecnologicamente analfabeti e non perchè non la sappiamo utilizzare, magari molti di noi sono anche fortissimi. Il tema è la totale assenza di consapevolezza che mettiamo in quell’utilizzo. In fondo, tutto questo digitale ce lo hanno scaricato addosso, diciamocelo pure: dai 3G ai prossimi 5G in meno di due anni, così come dai tradizionali metodi di business intelligence ai Big Data il passo è stato fin troppo breve.
Credo sia innegabile riconoscere che passiamo dal pc al cellulare e poi ai social e ancora alle serie televisive online, praticamente senza soluzione di continuità. Questo è un fattore di rischio per noi adulti, figuriamoci per i nostri ragazzi, ma potrei dire anche bambini. Ho di recente visto un video, facilmente rintracciabile su youtube. Era il video di un bimbo di circa 6 mesi cui era stato dato il cellulare ed il bimbo era completamente rapito dalle luci dello schermo. Poi, gli è stato improvvisamente tolto e come era prevedibile è scoppiato a piangere. Ciò che mi ha lasciato basita è che il pianto assomigliava più ad una crisi, che a un normale capriccio. Era irrefrenabile, inconsolabile neanche dall’abbraccio della mamma, da quella capacità che la filogenesi dell’essere umano ci ha permesso di formare in milioni di anni evolutivi, la capacità di consolare i nostri piccoli. Si è calmato, ahimè, solo ridandogli il telefono.
A quanti di voi, del resto, è capitato di vedere genitori o parenti consegnare scientemente e sistematicamente al proprio bambino tecnologia in ogni sua forma – dal cellulare, al tablet, piuttosto che al videogioco di turno – quasi fosse una babysitter virtuale. Che poi di virtuale non ha proprio nulla. Sarebbe, forse, più corretto chiamarla iperreale, perchè gli effetti di una esposizione tecnologica incontrollata ed inconsapevole sono più che reali, anzi pervasivi in tutte le declinazioni immaginabili. E vi spiegherò perchè.
Ora, prima di analizzare il fenomeno appena descritto, mi preme riportarvi alcuni dati pubblicati da note case di telefonia mobile: noi adulti sblocchiamo il cellulare almeno 80 volte al giorno e ci “giocherelliamo” per vedere messaggi, wapp, like, mail, circa 2600 volte al giorno. Ebbene, al netto del fatto che abbiamo a disposizione 24 ore, di cui grosso modo 8 le dovremmo passare a dormire, quante volte al giorno utilizziamo il cellulare? Lascio che siate voi a farvi da soli un’idea.
Siamo dipendenti da quest’oggetto. E’ un dato inconfutabile. La maggior parte di noi non lo prende per “giocherellarci” solo in occasioni di riunioni di lavoro o con gli amici. Ma lo facciamo davanti ai nostri figli. Ed allora se è vero tutto quello che ci raccontano le neuroscienze sul Mirroring e sui neuroni specchio, i nostri figli ricevono messaggi chiari, che innescano in loro processi di cui varrebbe la pena che noi adulti fossimo tutti consapevoli. Mi riferisco al sistema c.d. DOPAMINERGICO.
Funziona così: quando noi abbiamo bisogno di qualcosa, tanto bisogno, si attiva un circuito, che è il circuito della ricompensa. Questo dipende da un processo neurofisiologico, che a sua volta ha a che fare con i fondamentali processi, a livello cerebrale, di produzione di DOPAMINA. La DOPAMINA è un neurotrasmettitore responsabile della motivazione e del comportamento della ricerca di ricompensa ed è necessario ed essenziale al cambiamento neuroplastico per il formarsi di abitudini. Ora, quando le abitudini si stabilizzano al punto che da loro si attiva il circuito di ricompensa entriamo nel meccanismo di “dipendenza”.
Bene, adesso prendete queste informazioni e immaginatele tutte applicate al vissuto dei nostri figli.
Cosa comporta questo meccanismo? Ansia, documentata scientificamente. Del resto conosciamo tutti la “Nomofobia” (No Mobile Fobia), la paura di rimanere sconnessi, che ha spinto il sistema sanitario nazionale ad aprire già diversi Pronto Soccorsi pediatrici che si occupano proprio di queste patologie, legate al cattivo utilizzo della rete. Ma sviluppiamo anche stress relazionale, disturbi del sonno (non immaginiamo neanche che effetti può avere la luce blu dello schermo sui nostri ricettori sensoriali del sistema visivo). Questo poi si ricollega ad una minore capacità di resistenza alle frustrazioni o alla fatica del corpo per i compiti del giorno dopo. Incide sull’umore e genera comportamenti depressivi.
Ci ritroviamo, alla fine, con adulti dipendenti, adolescenti avviati alla dipendenza e bambini di pochi anni, se non mesi, che hanno genitori che ricorrono troppo spesso all’utilizzo del cellulare, lo abbiamo detto, come fosse una babysitter, che lungi da me definire virtuale, è anzi iperreale. E’ nostro sacrosanto dovere avere consapevolezza che il ricorso incontrollato alla tecnologia, attiva una memoria ancestrale che produce dopamina e innesca dipendenza, esattamente come una droga. Ora, farlo a valle nella vita – alla mia età di donna adulta – non sarà mai come farlo a monte, cioè quando un piccolo essere umano sta strutturando le reti connettomiche del proprio sé, cioè quella rete di corrente neuroelettrica informazionale, che ci pervade sin da bambini e che determina le tracce delle memorie dalle strutture mentali alle strutture molecolari.
E allora come fare? Dobbiamo, in primis, partire da noi adulti di riferimento, perchè siamo il loro principale modello e lo siamo sempre, senza soluzione di continuità. Dobbiamo mostrare loro la nostra capacità di essere forti e di saper dire quei “no” che salvano la vita, perchè fortificano, perchè allenano la resilienza. Quei “no” che non vorremmo dire e che, invece, servono come non mai. Bisogna stabilire delle regole. Si devono fissare dei limiti. E mantenerli. Anche se suona forte, va detto: quasi sempre, dietro un bambino o una bamvvdbina con dipendenze tecnologiche ci sono dei genitori deboli, o peggio ancora distratti. Sarò dura: non possiamo permetterci distrazioni, non possiamo abbassare la guardia. Un bambino senza regole, senza limiti, senza “no”, sarà un bambino infelice e deluso.
Costruiamo, poi, per loro o con loro, alternative. Sarebbe bello se ciascuno di noi genitori riuscisse a fare dei propri figli dei veri “friki”. Ecco questo è un termine che a me personalmente ha sempre fatto tanta simpatia. E’ un termine spagnolo, idioma cui sono molto legata, per aver trascorso in Spagna un bellissimo periodo della mia vita. Un “friki” è una persona che ha una passione, un hobby che le fa brillare gli occhi, per il quale è capace di alzarsi all’alba, di dimenticarsi di mangiare. E magari, perchè no, di mettere da parte il cellulare. Se si riesce a far coincidere questi hobbies o alternative “friki” con una condivisione degli stessi in famiglia, il connubio diventa perfetto: immaginiamoci un gioco da tavolo, suonare uno strumento, piuttosto che cucinare insieme una bella torta, ma anche praticare uno sport, perchè no. E allora dedichiamo tempo a scoprire cosa piace o può piacere a nostro figlio. Investiamo su quello.
Avv. Giorgia Venerandi
Resp. settore scuola e tutela dei minori