Risolvere il problema occupazionale per rilanciare l’economia

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Parla il prof. Fabio Verna “Il nostro euro è debole a causa della forte incidenza del debito pubblico sul PIL”

Alessandra Schofield

Per cercar di comprendere meglio la situazione in cui ci troviamo e quali possono essere le strade percorribili per offrire un volano ad una reale ripresa italiana, abbiamo chiesto aiuto al prof. Fabio Verna, economista noto anche al pubblico televisivo e docente universitario.

Prof. Verna, può spiegarci la differenza tra inflazione e deflazione e perché la deflazione non è positiva anche se, a parità di entrate, aumenta il potere di acquisto dei consumatori?

Inflazione e deflazione sono i due aspetti della stessa medaglia. Il denaro circolante ha un potere d’acquisto che cresce quando siamo in deflazione e si depaupera quando siamo in inflazione. Il problema è l’entità della crescita inflattiva e della decrescita deflattiva. Se l’inflazione “corre” ed aumenta in maniera molto consistente – come in Italia negli anni ’80, quando la crescita inflattiva si attestava tra il 18 ed il 20% – il potere d’acquisto dei consumatori può risultare pesantemente danneggiato; se l’inflazione è di valore cosiddetto “strisciante”, contenuta entro il 2%, si considera fisiologica e funzionale alla crescita dell’economia. Ciò perché l’economia moderna, quella che ci è stata proposta negli ultimi anni, è l’economia della crescita che prevede la costante richiesta di prodotto da parte del consumatore, la quale a sua volta fa sì che la produzione venga incrementata e, di conseguenza, le assunzioni, il fatturato e il gettito fiscale da parte delle aziende in uno sviluppo sano di tutta la filiera. In questo momento stiamo assistendo ad un aumento inflattivo attorno allo 0,5-0,6%, cioè veramente contenuto. Troppo presto e troppo poco per cantare vittoria. Per quanto riguarda l’incidenza sul potere d’acquisto, parliamo – per fare un esempio concreto – di 2,50 € su 500 €. La deflazione fa crescere, è vero, il potere d’acquisto, ma segnala paura, indica che le persone non hanno interesse a spendere, che gli investitori non investono, che il gettito fiscale diminuisce; indica, insomma, un rallentamento dell’economia.

Il fatto che questo lieve incremento dell’inflazione sia fondamentalmente causato dall’aumento dei prezzi del petrolio e di determinati prodotti agricoli può falsare il dato?

Il primo elemento che falsa il dato è il fatto che le rilevazioni inflattive vengano effettuate trimestralmente. Quindi usciamo da un trimestre conclusosi al 31 dicembre 2016 con un momento deflattivo ed osserviamo un inizio di trimestre, che ancora non si è concluso, che comincia a dare segnali di lievissima ripresa inflattiva e quindi della domanda da parte dei consumatori. Per potersi esprimere, quindi, bisognerebbe attendere un dato certo e comparabile. Dopodiché, tutto il sistema produttivo italiano viaggia su gomma, sia per quanto riguarda le merci che le materie prime, quindi gli aumenti dell’energia e del carburante incidono sul costo del venduto. Poi bisogna considerare che il trimestre che stiamo prendendo in esame comprende anche la stagione dei saldi post festività natalizie e quando milioni di cittadini italiani scelgono di usufruirne ciò modifica nettamente il flusso monetario e quindi il dato inflattivo. Infine, l’inverno atipico appena trascorso ha influenzato il costo di frutta e verdura.

È proprio di questi giorni il provvedimento sul reddito di inclusione, di cui si attende il decreto attuativo. Se confermate le premesse, si tratterebbe di una cifra consistente e destinata ad un’ampia platea di persone; ma questa misura emergenziale non rischia di essere una dispersione di risorse se non supportata da una strategia generalizzata di rilancio dell’economia?

Lo strumento del reddito di inclusione è utilizzato in altre nazioni e serve a sostenere il cittadino nei periodi di disoccupazione. Si tratta di un meccanismo contemplato nel welfare moderno ed è gestibile quando il momento di passaggio tra un’occupazione e l’altra è breve, in un mercato del lavoro mobile nel quale non vi siano lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, lavoratori garantiti da contratti blindati ed altri in stato di precarietà. In un sistema fluido si può perdere un posto di lavoro sapendo che in un tempo relativamente limitato – in termini di mesi – si troverà un’altra occupazione. Lo Stato fa bene ad intervenire per sostenere temporaneamente il cittadino, affinché questo non subisca un danno e non cada magari in mano ad un giro di usura né pesi troppo sulle famiglie di origine, vero ammortizzatore sociale di questi anni. Ferme restando, naturalmente, le risorse che però lo Stato italiano non ha. Per decenni siamo stati abituati a vedere “Pantalone” come una struttura forte e solida; e fino ad una decina di anni orsono l’Italia è stata in effetti un Paese ad alta capacità industriale. Oggi abbiamo perso terreno e lo Stato non ce la fa più. Il più grosso problema che abbiamo è il debito pubblico, che ricade sulle spalle dei cittadini ed è stato l’elemento devastante dell’entrata nell’Euro, al quale erroneamente imputiamo molti dei nostri problemi. L’euro italiano è così scarsamente competitivo rispetto, per esempio, a Germania e Francia perché in questi Paesi il debito pubblico sta al 70-80% del PIL mentre il nostro si attesta attorno al 123%. Quest’onere comporta un costo maggiore del denaro, minore credito sui mercati, maggiore lentezza in qualsiasi operazione e fragilità di fronte alle variazioni dello spread. Chiarisco che si tratta di un debito che non è stato creato dai recenti governi, ma negli anni ’80 quando, in un momento di corsa economica, il Governo italiano ha stampato centinaia di miliardi in bot e cct; quando c’è stata l’inversione di tendenza è diventato faticoso rimborsarli e si sono accumulati ed il costo di questo debito va progressivamente a sommarsi al capitale pregresso.

Quali iniziative bisognerebbe secondo lei intraprendere per arginare il fenomeno della disoccupazione?

Il problema della disoccupazione è senz’altro il problema più grave che affligge l’Italia. Lo è sotto tutte le sfaccettature possibili. Una grandissima parte della forza lavoro è inattiva e quindi non concorre al PIL ed alla crescita del Paese. Moltissime persone in questo momento soffrono non solo per la carenza di denaro, ma anche per la fragile condizione psicologica che l’assenza di reddito produce: non lavorare vuol dire sentirsi inutili e di peso, perdere dignità ed in taluni casi anche cadere in depressione. Il problema occupazionale, nel corso dei decenni della vita della Repubblica Italiana, è stato spesso risolto con l’intervento dello Stato: il posto nell’ente statale, nella sede ministeriale o nella pubblica amministrazione veniva dispensato in uno scambio di rapporti fra il politico ed il cittadino e ciò ha creato un eccesso di presenza lavorativa in talune strutture, poi anche – senza naturalmente voler criminalizzare tutta la p.a. – una dequalificazione del personale e l’instaurarsi di comportamenti discutibili. Penso, per esempio, ai classici “furbetti del cartellino”, all’abuso dei permessi per malattia e dei prepensionamenti. L’occupazione non può essere però creata a suon di decreti legislativi ma soltanto ad opera degli imprenditori, unici ad avere la reale facoltà di assumere le persone. E non mi riferisco solo ai grandi gruppi italiani, che in realtà sono pochi, ma alla miriade di piccole e medie imprese, la vera forza economica di questo Paese: l’assunzione di anche un solo addetto per ogni singola pmi coprirebbe quasi completamente l’intera fascia dei nostri concittadini disoccupati. Offrire la possibilità di lavorare significa conferire capacità di spesa e dunque di alimentare il ciclo produttivo, sviluppando la crescita generale. Per ottenere tutto ciò, bisognerebbe ricorrere ad un forte abbattimento delle aliquote fiscali e di quelle previdenziali, perché una busta paga rispetto alla quale un lavoratore percepisce tra i mille ed i milletrecento euro al mese netti – che oggi rappresentano già stipendi apprezzabili – costa circa il 40% in più per oneri fiscali e previdenziali al datore di lavoro. Il vero volano alla crescita economica italiana è dunque creare occupazione sia da parte, come detto, delle piccole e medie imprese sia ricorrendo a grandissimi lavori di pubblica utilità nei quali lo Stato potrebbe intervenire: ad esempio il rifacimento della viabilità nazionale Anas, la messa in sicurezza delle zone sismiche del Paese, la realizzazione di nuovi porti ed infrastrutture, lo sviluppo della banda larga.

CHI È FABIO VERNA

Economista con una notevole esperienza maturata sui mercati finanziari, già docente di Analisi Finanziaria, autore di quattro testi e di numerose pubblicazioni scientifiche, ha ricoperto incarichi alla guida di imprese industriali e finanziarie.

Da sempre appassionato di Diritto del Lavoro, collabora con le principali testate radiotelevisive nazionali su temi economici ed occupazionali.